TEMPI MODERNI recensione di CLAUDIA MARINELLI

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Il sonoro entra nell’industria cinematografica nel 1926, dopo dieci anni Charlie Chaplin produce e dirige “Tempi moderni” scegliendo con coraggio di non far parlare i suoi personaggi se non per poche battute, e appare per l’ultima volta nei panni del vagabondo.
Perché dopo più di sette decadi dalla sua uscita, questo film muto è capace di toccarci ancora per la sua attualità e commuoverci per la sua poesia?

Charlot è un povero operaio che lavora in una catena di montaggio e ha un’unica mansione: avvitare bulloni per tutto il giorno. Minuto e spaesato rispetto ai suoi colleghi, non riesce a seguire i ritmi serrati del suo lavoro e finisce col disturbare i colleghi. Quando il direttore della fabbrica decide di aumentare la velocità della catena di montaggio, il povero Charlot non regge lo stress: perde la ragione e comincia ad avvitare tutto ciò che somiglia a un bullone come i bottoni della gonna della bella segretaria, i nasi degli altri operai e le manopole di un idrante. Poi si perde negli ingranaggi delle macchine. Recuperato infine viene spedito in un centro di igiene mentale e curato per esaurimento nervoso.


Dimesso dall’ospedale, ancora disorientato e solo, viene erroneamente scambiato per il capo di un gruppo di manifestanti e ingiustamente incarcerato. In prigione Charlot si trova bene, ma ingerisce per sbaglio una droga e sventa il tentativo di rivolta di alcuni carcerati ottenendo così la libertà e una lettera di presentazione del direttore del carcere.
Fuori dal carcere la recessione ha ridotto in povertà gran parte delle famiglie. Il padre di una monella ha perso il lavoro. La ragazza ruba cibo dalle navi attraccate al porto per sfamare i bambini del quartiere e le sue sorelline, ma non riesce a salvare il padre che muore in uno scontro tra manifestanti e polizia. Intervengono i servizi sociali per portarla, insieme alle sue sorelline, in un orfanotrofio, ma lei scappa.
Charlot nel frattempo, grazie alla lettera di presentazione, ha trovato lavoro in un cantiere navale dove si sta costruendo una grande imbarcazione. Desideroso di dare il meglio di sé vara per sbaglio la nave prima che sia finita combinando un disastro, e non gli rimane che auto licenziarsi. Di nuovo senza lavoro vaga per la città dove s’imbatte nella monella inseguita dai poliziotti per aver rubato un filone di pane. Charlot, colpito dalla ragazza, cerca di addossarsi la colpa ma non ci riesce. Decide però di tornare in galera dove almeno potrà mangiare e, per farsi arrestare, ordina del cibo per sé e per dei bambini da un self service, ma non paga. Viene arrestato e fatto salire su di un furgone dove ritrova la monella. Il furgone si ribalta e i due decidono di scappare perché Charlot desidera ora la libertà insieme alla ragazza.
In vagabondo ottiene un lavoro come guardia notturna in un grande magazzino grazie alla sua lettera di presentazione. Appena il negozio chiude fa entrare anche la monella. I due prima si sfamano nel reparto pasticceria, poi si divertono nel reparto giocattoli ed infine si riposano sul sontuoso letto del reparto arredamento. Tre ladri entrano nel negozio, ma uno di loro è un ex collega di Charlot, adesso disoccupato. Contenti di essersi ritrovati gli amici festeggiano con i vini del reparto alimentare. Il giorno seguente il vagabondo viene trovato addormentato e ancora un po’ brillo nel reparto stoffe. Portato in tribunale è condannato a 10 giorni di carcere.
Quando esce di prigione la monella lo porta alla catapecchia che ha rimediato, insieme sognano di vivere in una casa tutta loro piena di comodità e di cibo fresco. La notizia della riapertura delle fabbriche spinge Charlot a cercare lavoro. È subito assunto, ma ben presto altri scioperi e agitazioni porteranno alla chiusura della fabbrica. Ma la monella ora ha trovato lavoro come ballerina in un ristorante e chiede al suo padrone di assumere anche Charlot che dovrà essere un cameriere e un cantante. Come cameriere Charlot è abbastanza imbranato, ma la sua esibizione come cantante, il famoso pezzo della “Titina”, manda in visibilio i clienti del locale e gli assicura il posto fisso. Tutto sembra risolversi al meglio, ma due assistenti sociali hanno riconosciuto la monella durante la sua esibizione e vogliono portarla in orfanotrofio perché è ancora minorenne e a Charlot e la ragazza non rimane che scappare.
Li ritroviamo al bordo di una strada. La monella è affranta e ha perso la voglia di lottare e di vivere, ma Charlot l’abbraccia, la fa rialzare, le sorride e le dice di sorridere, le dice che in qualche modo riusciranno a cavarsela. Insieme, mano nella mano, s’incamminano verso l’orizzonte illuminato.

Il film esce nelle sale nel bel mezzo della grande depressione dovuta al crollo della borsa nel 1929. Il New Deal non aveva ancora fatto sentire i suoi effetti positivi e la delusione per le promesse infrante che il progresso industriale avrebbe dovuto portare, era ancora grande. L’avvento dell’industrializzazione di massa e la razionalizzazione del lavoro avevano coinciso con la disoccupazione e l’impoverimento di massa. Si producevano grandi quantità di beni a prezzi convenienti, ma pochi potevano permettersi di comprarli.

Charlie Chaplin, che aveva avuto un’infanzia difficile, cominciando a lavorare all’età di dieci anni, non poteva rimanere indifferente alle pene delle gente comune che non trovava lavoro e non riusciva a sfamarsi e a sfamare la propria famiglia. Sentì il bisogno di fare un film a sfondo sociale e per questo motivo intraprese, all’inizio degli anni ’30, un lungo viaggio attraverso l’ Europa. Negli Stati Uniti aveva visto la depressione ridurre in povertà una popolazione benestante in pochissimo tempo, in Europa trovò ancora Paesi attanagliati dalla povertà, dalla disoccupazione di massa e dai nazionalismi. Da questo lungo viaggio durato diciotto mesi egli raccoglie le idee per produrre “Tempi Moderni” il primo suo film a sfondo sociale. Nel 1931, infatti, dichiarava in un’intervista: “La disoccupazione è la questione primaria, le macchine dovrebbero migliorare la vita degli uomini, non seminare il panico e privarlo del lavoro.”
Se le macchine non migliorano la vita degli uomini a che cosa servono? È giusto dar loro il potere di distruggere parte della nostra umanità? È giusto osannare un progresso che non ci rende felici?
Certo il tema era difficile da trattare in un film perché più vicino alla Filosofia che all’arte. Solo una mente geniale poteva illustrare in modo così semplice e poetico, usando l’ironia della commedia e la leggerezza del sorriso, l’eterna lotta dell’uomo, piccolo, fragile e mortale, per migliorare la sua condizione umana.

Molte sono le tematiche affrontate nel film,la più importante è quella riguardante la disumanizzazione dell’uomo nell’economia moderna.
Per illustrare la disumanizzazione del lavoro Chaplin sceglie di produrre un film quasi interamente muto. A parte l’esibizione finale ne la “Titina” del vagabondo, la cui ambientazione è un ristorante, udiamo solo alcuni suoni e alcune battute recitate attraverso le macchine come le due frasi del direttore della fabbrica nel bagno, che ordina la vagabondo di tornare al lavoro attraverso un grande schermo, o il manuale d’istruzioni per la macchina, o ancora la radio.
La didascalia iniziale: “Tempi Moderni, una storia di industria, iniziativa individuale, e di umanità che si batte alla ricerca della felicità”, è subito seguita dall’immagine di un gregge di pecore bianche dove vi è un’unica pecora nera e quest’immagine è subito seguita, a sua volta, dalla visione di una fiumana di operai che esce dalla fabbrica. Gli uomini hanno perso la loro umanità per lavorare nelle fabbriche e sono simili alle pecore: passivi, senza speranze, non hanno più coscienza di se stessi. È questa dunque la felicità?
E che cosa è diventato l’uomo? Una risposta il regista cerca di darcela quando ci racconta la pazzia del vagabondo.
Il direttore della fabbrica aumenta il ritmo della catena di montaggio e Charlot impazzisce. Si mette a ballare spruzzando d’olio i suoi colleghi impegnati a lavorare. Per fermare il pazzo Charlot il capo reparto ferma la macchina. Tutti i personaggi allora, nel caos più completo, cercano di acchiappare il vagabondo che trova ora nella macchina il suo più potente alleato. Il vagabondo fa ripartire la catena di montaggio ed ecco che tutti i “sani” schiavizzati, si precipitano, senza riflettere, come dei robot, a lavorare con gesti meccanici. E Charlot, il pazzo che è riuscito a scappare alla tirannia della macchina, continua il suo esilarante balletto. Il potere delle macchine è così totalizzante che solo la pazzia riesce a liberarcene? Non è certo una soluzione auspicabile, la pazzia, eppure il film la propone con delicatezza, facendoci ridere.
Come, con altrettanta comica poesia, il regista ci dipinge l’uomo intrappolato dalla tirannia delle macchine nella famosissima scena dove vediamo il vagabondo scivolare tra gli ingranaggi dentellati della catena di montaggio, in un geniale effetto cinematografico che associa il vagabondo alla pellicola “presa” negli ingranaggi della macchina da presa. Il cinema è anche lui il prodotto delle macchine!
E dunque se le macchine possono essere di supporto all’arte, non possono di per sé essere portatrici solo di effetti negativi per l’umanità. Il film non è, a mio avviso, una condanna al progresso industriale di per sé, ma è una denuncia dell’utilizzazione delle macchine solo per produrre di più, solo per fini lucrativi. Una denuncia dell’avidità cieca degli uomini.

E che cosa è la felicità? Di che cosa abbiamo bisogno per essere felici?
Il film sembra dare una risposta semplice: quando mangiamo a sazietà, abbiamo una casa accogliente, un compagno o una campagna amorevoli possiamo essere felici. Il vagabondo e la monella sognano la casa ideale dove tutto è pulito, dove possono cogliere mele mature affacciandosi alla finestra e dove basta fare un fischio a una mucca perché si fermi davanti alla porta di casa e si faccia mungere, dando latte freschissimo. L’uomo e la donna siedono a tavola e mangiano sorridenti. Questa è la felicità per il vagabondo. Certo la scena ci fa sorridere perché le mucche non si fermano davanti alle case per farsi mungere, però ci illumina sul pensiero del regista. Possiamo immaginare l’infanzia difficile del Charlie Chaplin bambino senza genitori, della sua fame. Per lui la felicità è mangiare, avere del latte appena munto, assaporare una mela colta dall’albero.
E ancora com’è enfatizzata l’importanza del cibo quando la monella viene rincorsa per aver rubato un filone di pane, quando Charlot ordina un’incredibile quantità di cibo per sé e per dei bambini sapendo che non potrà pagare, per andare in prigione dove di sicuro mangerà, e quando, dopo la riapertura delle fabbriche, dà da mangiare al suo superiore adesso intrappolato nella macchina ferma, durante la pausa pranzo!
Bisogni primari la cui soddisfazione dà piaceri semplici. Il vagabondo ci fa riflettere su che cosa sia veramente importante nella vita.

Il film tocca un altro tema importante: la miopia, l’egoismo e la cattiveria dei servizi sociali, della polizia, della gente benestante. Si dovrebbe poter aiutare le persone in difficoltà e invece queste vengono intrappolate in un sistema disumanizzato. Il rapporto tra vagabondo e polizia è sempre stato problematico, lo abbiamo visto in molti film di Charlie Chaplin, ma in questo film la tematica suggerita è di più ampio respiro.
La monella viene allontanata dalle sue sorelline. Le bambine hanno perso entrambi i genitori, è una cattiveria dividerle, ma nessuno si pone il problema e la monella scappa quando capisce che comunque perderà le sorelle. Una signora benestante vede la monella rubare un filone di pane, non prova compassione, chiama subito il poliziotto per denunciare il furto. Il poliziotto non riflette neanche un secondo, non prova compassione e insegue una ragazzina vestita di stracci e scalza che ha rubato solo per fame.
Come risolvere il problema del cibo?
Ancora una volta il vagabondo si serve del “sistema istituito” per trovare la soluzione. Ordinando un’incredibile quantità di cibo per sé e dei bambini altrettanto affamati, sapendo che non potrà pagare, viene arrestato e sarà portato in prigione dove mangerà senza dover lavorare. A che serve imprigionare la gente che ruba per fame? Il sistema stesso è assurdo: si dà da mangiare gratuitamente in prigione alle persone che rubano solo per mangiare.
Quanta miopia e quanta assurdità nel sistema costituito!

Perché questo film è ancora attuale?
Il vagabondo diventa in questo film uno dei milioni di disoccupati le cui preoccupazioni non sono poi così diverse dalle nostre al giorno d’oggi: disoccupazione, povertà, scioperi, ineguaglianze economiche, tirannia delle macchine.
E anche se oramai il lavoro a catena interessa una parte minima della forza lavoro che oggi è impegnata maggiormente nel settore terziario, quello dedicato ai servizi, grazie anche alle conquiste dell’ingegneria automatica, le macchine dominano la nostra vita e le nostre economie.
Potremmo pensare che siamo “cresciuti”, cambiati in più di settant’anni e che i problemi di disumanizzazione siano risolti.
Se così fosse “Tempi Moderni”, pur rimanendo una grande opera d’arte, ci sembrerebbe affrontare tematiche superate. Invece il film è così attuale!
In questo terzo millennio, la tecnologia, le macchine tra cui il computer, sono entrate a far parte della nostra vita quotidiana, con una facilità sorprendente. Questo ha portato dei notevoli vantaggi, come il poter comunicare in qualsiasi momento con qualsiasi parte del globo a costo irrisorio (penso al programma skype), oppure riuscire a trovare informazioni in modo rapido senza spostarsi da casa (con la rete internet) anche a costi irrisori (penso al semplice canone mensile che paghiamo per collegarci alla rete).
Altre macchine hanno migliorato la nostra qualità e la nostra “quantità” di vita, penso ad esempio alle conquiste della Medicina nella diagnostica precoce di certe malattie grazie agli ecografi, la risonanza magnetica e la TAC.
Dunque le macchine oggi non fanno parte solo del nostro mondo lavorativo, come nel 1936, ma hanno invaso le nostre case, le nostre borse perfino le nostre tasche (penso ai cellulari, iPod ecc…).
Siamo più felici? Abbiamo riguadagnato o perso ulteriormente parte della nostra umanità per causa delle macchine? Siamo senza problemi di lavoro?
La crisi che attanaglia le nostre economie dal 2008 risponde negativamente all’ultima domanda, mentre è più difficile rispondere alle due precedenti domande.
Potrei qui scrivere ancora pagine e pagine di argomentazioni in favore o a sfavore della crescente invasione delle macchine nella nostra vita e lunghe disquisizioni su che cosa significhi essere felici.. Rimando dunque al desiderio di approfondire e di riflettere all’argomento di chi mi legge che potrà documentarsi facilmente, ancora attraverso questa macchina con la quale sto anch’io scrivendo, per formarsi un’opinione personale.
Ciò che penso sia da ammirare ancora in questo “vecchio” film, è di aver saputo sconfiggere la vecchiaia riuscendo ancora a commuoverci a farci ridere interrogandoci sul profondo senso della nostra vita e della nostra condizione di uomini mortali, esili e piccoli, ma grandi e forti, come solo un’opera d’arte ha la capacità di fare.

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Mi piace il cinema e ho aperto questo blog, vediamo che succede!
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6 risposte a TEMPI MODERNI recensione di CLAUDIA MARINELLI

  1. Alessio ha detto:

    Veramente bella recensione! Argomento ben trattato e sviluppato alla perfezione. Tra quelli che si possono trovare in rete è a mio parere il migliore. Condivido ogni riflessione fatta. Ancora complimenti.

  2. sacha ha detto:

    giudizio personale?

  3. Pingback: Chaplin, Terribili Questi Tempi Moderni - Pensiamoci

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