Un emozionante prologo in versi recitato da una struggente voce fuori campo, sul sottofondo di una musica etnica, apre questo intenso lungometraggio della regista libanese Nadine Labaki come una tragedia classica. Si annuncia la storia che verrà sulle immagini di un paesino perso nella natura brulla e assolata, dove una moschea e una chiesa si dividono la stessa piazza. Tutto intorno campi minati e filo spinato. Sopraggiunge un coro di donne che procede lento al ritmo della musica. La voce tace per lasciare spazio alla danza macabra. Alcune donne portano il velo altre hanno la testa scoperta, ma tutte vestono di nero e tutte battono al petto le foto dei loro cari. Arrivate ai cimiteri si dividono: le mussulmane entrano nel cimitero mussulmano, le cristiane dall’altro lato della strada.
La premessa è altamente drammatica, ma la storia non sarà tragica.
Con la maestria di un funambolo la regista, non solo costruisce un racconto positivo, ma riesce a mescolare i generi narrativi più disparati spaziando tra dramma, commedia, farsa e musical.
In quest’angolo di mondo e in questa particolare vicenda, le protagoniste indiscusse sono le donne. Non sono perfette, ma sanno superare gelosie e invidie per lottare unite contro la violenza tra gli uomini. Forse hanno studiato Machiavelli perché non esitano a convincere prete e imam a collaborare con loro. Il “fine” in questo film è la convivenza pacifica tra esseri umani di religione diversa, i “mezzi” molteplici, fantasiosi e alle volte esilaranti come rompere l’unica televisione funzionante, bruciare tutti i giornali, far piangere sangue la Madonna, ospitare ballerine russe per allentare la tensione e preparare un banchetto a base di hashish e barbiturici per rubare le armi agli uomini narcotizzati.
Nonostante tutto la tensione cresce, la violenza sembra inevitabile e la carneficina imminente ma… ancora le donne troveranno l’intelligente soluzione che non è un “deus ex machina”, bensì un’idea semplice e una proposta alla riflessione per tutti noi su che cosa significhi essere “umani” oltre la fede.
Girato in Libano nell’autunno 2010 e presentato al Festival di Cannes nel 2011 nella sezione “Un certain regard”, mentre dilagava in diversi Stati del Medio Oriente la “Primavera Araba”, il film è un inno alla libera convivenza pacifica tra persone di religione diversa. Purtroppo in certe regioni del nostro globo si muore ancora invocando il nome di un Dio, ma Nadine Labaki, che ci stupisce di nuovo dopo il suo film d’esordio “Caramel” del 2008, è determinata a non accettare questa minaccia permanente capace di distruggere la società civile, e usa l’immenso potere del cinema per gridare il suo “No!” alle guerre fratricide.
Anche se a volte il passaggio da un registro narrativo all’altro (tragedia -dramma – commedia – musical) non avviene in perfetta scioltezza, il merito della regista, che ha anche collaborato alla sceneggiatura, è quello di saper tenere sempre alta la tensione dello spettatore, anche grazie alla suggestiva fotografia di Christophe Offenstein e alla musica essenziale di Kaled Mouzannar.
Buono il lavoro di approfondimento dei personaggi femminili principali: delle temerarie “Madre Coraggio” che, ben lungi dall’arrendersi ai dolori della vita, sanno ancora ridere e beffare la stupidità umana con la loro sottile intelligenza. L’imam e il prete ci ricordano da lontano Don Camillo e Peppone. Sono divisi dalla fede, ma anche capaci di superare le differenze e collaborare per salvare i loro compaesani dalla violenza.
Un opera lodevole in cui la regista è riuscita a evitare qualsiasi strumentalizzazione politica o ideologica, per confezionare un film che somiglia tanto a una favola “filosofica”, ma che potrebbe in fondo essere anche vicino alla realtà, se solo gli uomini e le donne riuscissero a vedersi oltre la “cornice” dell’appartenenza religiosa o etnica.
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