IL GIOCO DEI RUBINI – Recensione di CLAUDIA MARINELLI
Dall’acclamato direttore di “Fresh” (1994), Boaz Yakin, ecco un secondo interessantissimo film passato quasi inosservato nelle sale italiane alla fine degli anni ‘90.
Sonia (Renee Zellweger che avevamo già apprezzato nel film “Jerry Macguire”) è una giovane donna cresciuta ed educata nella comunità ebraico-ortodossa in America, secondo gli schemi e i rigidi precetti della Bibbia. La sua vita rispecchia ciò che i suoi genitori volevano per lei: si è sposata con Mendel,un giovane professore erudito e fermamente credente, ha dato alla luce un figlio maschio, vive in una casa decente in un quartiere popolato da ebrei ortodossi come lei.
La vita dovrebbe scorrere senza problemi ma, per Sonia la casa, la famiglia, la vita matrimoniale e i rapporti sessuali con il marito non sono soddisfacenti perché deve costantemente combattere con le sue passioni latenti e le sue esigenze sessuali che diventano, con il passare del tempo, più impetuose e incontenibili.
Sonia intreccia una relazione adulterina e angosciante con il cognato Sender, con il quale ha dei rapporti sessuali freddi e ostili. Questa esperienza fa riflettere la protagonista e la spinge a capire se stessa, le sue vere esigenze di persona e di donna e a intraprendere una carriera nel commercio dei gioielli. Il lavoro permetterà a Sonia di avere contatti con il mondo esterno alla sua comunità e, mano a mano che scoprirà un mondo diverso da quello nel quale è cresciuta, dovrà lottare contro suo marito, la sua famiglia, la sua comunità, nonché con se stessa per affrancarsi dai tabù e conquistare la libertà alla quale anelava.
Per vivere libera ed essere se stessa, Sonia pagherà un prezzo altissimo, un prezzo ben più alto di tutti i gioielli e i rubini che vende. Il titolo in lingua originale “A price above the rubies” (letteralmente “un prezzo al di sopra dei rubini”) sintetizza perfettamente la trama.
Ottimamente diretto e curato nei minimi dettagli da Boaz Yakin (ebreo di nascita, educato nelle scuole Yashiva di New York), che ne ha anche scritto la sceneggiatura, il film si avvale di una valida scenografia, di bravi costumisti e truccatori e di un cast di attori di tutto rispetto tra i quali ricordiamo, in ruoli secondari, Julianna Margulies, Allen Payne, Kathleen Chalfant, Glenn Fitzgerald, Christopher Eccleston e il piccolo Shelton Dane.
La storia è raccontata dal punto di vista della protagonista che, contrariamente agli insegnamenti ricevuti, mette al primo posto le sue esigenze individuali e personali davanti a quelle del gruppo in cui vive: Sonia non è disposta a sacrificare se stessa in cambio di una stabilità familiare e del benestare della comunità in cui vive. Il film apre così la porta ad un dibattito antichissimo (pensiamo all’ “Antigone” di Sofocle) e pertanto sempre attuale: i bisogni e le credenze del singolo sono più importanti della stabilità della comunità in cui si vive, delle leggi? È giusto sacrificare una stabilità familiare ed emotiva, una “rispettabilità”, per ricercare la propria libertà? Sono più importanti le leggi dettate dalla comunità che garantiscono, nel bene e nel male, la stabilità della comunità stessa, o le aspirazioni e convinzioni individualistiche e personali? E quale prezzo è giusto pagare per aver infranto determinate regole?
La protagonista del film, in fondo come Antigone, risponde alla domanda con una scelta individualistica e ne paga il carissimo prezzo: la perdita del suo bambino, degli affetti familiari, della sicurezza economica. Sonia diventa così un’ eroina a tutti i livelli perché ha il coraggio di guardarsi dentro e di accettare le conseguenze della sua lucidità.
Il film è privo di retorica; non sembra esserci, da parte del regista-sceneggiatore, la volontà di emettere un giudizio sul modo di vita della comunità ebraico-ortodossa, egli cerca di non far trasparire le proprie opinioni personali, questo atteggiamento forse a noi europei, disturba un po’. Il regista sembra volerci dire, in un modo tutto americano, che se si appartiene per cultura, o educazione, o per convinzione e credo personale ad una certa società e non si sente il bisogno di cambiare, nessuno ha il diritto di giudicare se questa appartenenza sia giusta o sbagliata. Ma, se si è “diversi”, vivere nella comunità sbagliata e non avere il coraggio di reagire e incamminarsi su di una strada differente, è errato. In quest’ottica possiamo spiegare molti fenomeni “americani”: le comunità chiuse dei Mormoni nello Utah, le comunità amish in Pennsylvania e, naturalmente, le comunità ebraico-ortodosse sparse negli Stati Uniti e nella città di New York. Boaz Yakin sembra volerci dire, attraverso le parole dei suoi personaggi, che, se una convinzione è profonda e vera, va sempre rispettata: il marito di Sonia è veramente credente e anche buono, non infierisce sulla moglie e, alla fine del film, la capisce e accetta il fatto che la moglie non possa più vivere con lui perché profondamente diversa; la stessa cosa fa la moglie del vecchio Rabbino che aiuta Sonia, alla fine del film, a riprendere il suo anello.
Il film è particolarmente interessante per i dialoghi. Si raccomanda vivamente a chi conosce bene l’inglese, di vederlo in lingua originale. Boaz Yakin “gioca in casa” e, sapientemente, ha saputo far parlare i suoi personaggi con accenti differenti, tutti di New York, a seconda delle origini culturali ed etniche. Queste sfumature si perdono con la traduzione.
Particolare attenzione è stata data ai costumi e al trucco. Le donne ebree-ortodosse in quartieri come Borough Park (il quartiere di Brooklyn dove è stato girato il film) vestono proprio come le attrici e le comparse del film, quelle sposate portano delle parrucche perché, dice la Bibbia, la donna sposata deve coprire il capo. La Bibbia, però, non dice con che cosa bisogna coprire la testa e allora, le donne di quella particolare comunità, per rimanere belle e attraenti, coprono i loro capelli con altri capelli.
Ben fatta anche la descrizione degli interni, che somigliano agli interni di case ebraiche ortodosse dall’arredamento spesso pesante e massiccio con stanze divise da grandi porte a vetri, sedie e divani protetti da fodere di plastica.
“Il gioco dei rubini” è sicuramente un film da vedere per saperne di più su di un mondo che noi, qui in Europa, neanche immaginiamo possa esistere al di là dell’oceano in una città come New York, ma che pertanto rappresenta una realtà sulla quale, se vogliamo, ci potremo interrogare.